Da impiegato a tempo indeterminato a startupper di successo. La storia professionale di Massimo Luise, 51enne ferrarese esperto in sistemi di archiviazione, è segnata da un prima e da un dopo. Lo spartiacque del suo cambio vita è racchiuso in un’intercapedine di soli venti millimetri. Si tratta di un cuscinetto di protezione ignifuga che si inventa proprio Luise, brevettandolo. Quell’idea hi-tech oggi si estende in ogni angolo del mondo. Dai 13 chilometri di Archivio centrale di Stato in zona Eur a Roma ai 12 metri di profondità del polo bibliotecario di Rami Barrack a Istanbul, che contiene fino a due milioni di libri.

E poi ci sono gli archivi universitari di Torino, Milano, Bologna e Ferrara. Luise è alla guida di Makros, impegnata a costruire sistemi di archiviazione per proteggerli da fuoco, acqua e deterioramento: così tutela pergamene, libri antichi, documenti, opere d’arte. La squadra previene la presenza di funghi, acari e batteri con algoritmi di AI e sensori di ultima generazione.

Verso figure imprenditoriali mature

Da Ferrara a Vicenza. Susanna Martucci è un’imprenditrice di prima generazione, vincitrice del premio GammaDonna. Veronese classe 1958, s’è inventata un lavoro da zero: recupera gli scarti della produzione industriale e artigianale per riprogettare nuovi manufatti e farne oggetti di design di uso comune. Altro che ventenni smanettoni della rete. L’economia reale delle start up o delle Pmi innovative negli ultimi tempi sta virando verso il coinvolgimento di figure imprenditoriali e manageriali mature, oltre la retorica giovanilistica della prima narrativa dell’innovazione. Non è mai troppo tardi per diventare startupper, si potrebbe dire. È quello che ha scritto recentemente TechCrunch definendo il fenomeno dei silver startupper in una categoria chiamata agetech. Si tratta di realtà guidate da innovatori dai capelli d’argento. Così l’innovazione abbraccia classi anagrafiche più mature rispetto al passato, equamente distribuite tra donne e uomini e geograficamente collocate anche in contesti non metropolitani.

Palmarini: «Così si dà senso alla propria vita nella società»

Oggi l’età media degli startupper si sta riposizionando. Cinquantenni, sessantenni e settantenni che come piano B del proprio percorso professionale (e personale) decidono di inventarsi qualcosa da zero. È il riflesso di una disponibilità economica maggiore, ma in ballo c’è anche altro. «La vita è larga e lunga e c’è tempo per essere quello che avremmo voluto e forse non sapevamo nemmeno di volere. D’altronde stiamo vivendo una transizione da una società della vecchiaia a una società della longevità di cui siamo contemporaneamente testimoni e protagonisti. Più che la semplice disponibilità di tempo e soldi, credo sia la presa di coscienza del proprio ruolo in questa nuova traiettoria di aspettativa di vita ad aprire scenari inesplorati e inaspettati. Oggi sappiamo benissimo di aver bisogno di sentirci utili, attivi, parte del contesto. Dare un senso alla nostra vita, avere un ruolo e un senso nella società, esserne parte integrata. Un fattore così importante e riconosciuto da far sì che le valutazioni della significatività della vita siano state adottate come uno dei parametri chiave dagli osservatori sulla salute pubblica del National Health System britannico. Siamo sempre alla ricerca di quel qualcosa che non morirà mai, indipendentemente dal nostro corpo», afferma Nicola Palmarini, direttore National Innovation Center for Ageing del governo inglese e uno dei massimi esperti di analisi delle generazioni, autore del libro “Immortali” per Egea.

Un tasso di successo del 70%

Un fenomeno che abbraccia anche lavori di relazione col pubblico: ha fatto notizia la storia di Anna Possi, 99 anni, nota come la barista più anziana d’Italia. Dal 1958 trascorre ogni giorno dietro al bancone del suo bar a Nebbiuno, meno di duemila anime in provincia di Novara. Tra gli oltre 1,5 milioni di imprenditori nel mondo, quelli sopra i 50 anni hanno maggiori probabilità di avere successo rispetto alle controparti più giovani. Oggi negli Stati Uniti un’impresa su tre è avviata da qualcuno di 50 o più anni. Ma c’è di più. Se solo il 28% delle start up create dai giovani durano più di tre anni, per quelle accese da over 60 il tasso di successo è del 70 per cento. È quanto mette nero su bianco il rapporto “The Longevity Economy” realizzato dall’Aarp and Oxford Economics. «Poter fisicamente e psicologicamente lavorare significa anzitutto riconoscere il proprio contributo alla società di cui si è parte, poter produrre reddito, non gravare sulle pensioni e quindi sui giovani per dover finanziare i più vecchi. Significa anche avere capacità di spesa, permettere all’economia di rimanere in un ciclo attivo», precisa Palmarini, che prospetta un futuro ancora più determinato dalla generazione silver.



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