Il futuro della mobilità a guida autonoma si scrive anche ripartendo da una piccola cittadina norvegese di 30mila anime a sud-ovest di Oslo. Benvenuti a Sams, ecosistema dedicato al trasporto autonomo sostenibile su terra, aria e mare. In questo distretto hi-tech le aziende del territorio hanno deciso di unire le forze per realizzare innovativi mezzi di trasporto, anche su neve: per la prima volta l’aeroporto norvegese di Fagernes ha adottato uno spazzaneve senza conducente e a breve nascerà la robot-navetta che ridisegnerà il trasporto pubblico della città. Si tratta di uno dei 160 ecosistemi tecnologici nati tra l’Europa, l’America e i Paesi orientali.
Una indagine mondiale su 160 ecosistemi
A mapparli ci ha pensato l’Università La Sapienza con una ricerca realizzata con Eni e il Gruppo Ferrovie dello Stato nell’ambito del progetto Road, ossia Rome Advanced District. «Queste realtà danno vita a reti complesse di attori, attività e risorse che collaborano per promuovere l’innovazione. Tra questi protagonisti – piccole e grandi imprese, università, centri di ricerca, istituzioni pubbliche e persino cittadini – si sviluppano relazioni di diversa natura, di collaborazione, di competizione e di coopetizione», afferma Mauro Gatti, professore ordinario di organizzazione aziendale all’Università La Sapienza e autore della ricerca insieme a Michela Iannotta e Giuseppe Ceci. Un crocevia tra tecnologie evolute e saperi specialistici. La nuova frontiera si misura nelle alleanze impensabili in passato. È la co-creazione che permette di ibridare competenze. La mappa registra requisiti vincenti: gli ecosistemi analizzati sono stati selezionati sulla base di diversi fattori e 40 incarnano le proposte migliori. «Ogni distretto risente delle specificità territoriali, ma è in grado di fare sistema col mondo intero. Parigi è nota per i poli tecnologici di Paris-Saclay e Station F, Tel Aviv per il suo vivace ecosistema di start up. Molti degli ecosistemi selezionati si trovano in parchi scientifici o tecnologici, luoghi che fungono da centri di aggregazione per aziende, università e centri di ricerca, come Science Park di Amsterdam o l’High-Tech Campus di Eindhoven. Un altro aspetto rilevante è la loro specializzazione: Sophia-Antipolis in Francia è il punto di riferimento per le tecnologie dell’informazione, Kilometro Rosso in Italia è specializzato nel manifatturiero e industriale, mentre Nyc Life Sci a New York sulle biotecnologie. In alcuni casi si parla di poli emergenti come il Teknopark di Istanbul o il Parque Tecnológico de Vizcaya in Spagna. Ma ciò che accomuna questi ecosistemi è la stretta connessione con università prestigiose e centri di ricerca avanzati», precisa Gatti.
Nuovi attori in un sistema fluido
L’attrattività si misura su sei parametri: capacità di esecuzione, maturità dei partner, grado di sviluppo dell’innovazione sul mercato, co-sviluppo, gestione della proprietà intellettuale e internazionalizzazione. «La natura liquida di questi ecosistemi, caratterizzata da interconnessioni di un vasto numero di attori e fluidità dei processi, suggerisce un’evoluzione significativa nella relazione tra pubblico e privato. L’enfasi sulla collaborazione implica un sostanziale ripensamento dei tradizionali confini. La fluidità suggerisce una maggiore accessibilità e permeabilità, consentendo a nuovi attori di inserirsi più facilmente all’interno di queste configurazioni rispetto ai modelli tradizionali», dice Gatti.
Le start up non sono bastano
Ma c’è dell’altro. Perché dalla ricerca emerge una dinamica top-down. Lo sviluppo si rafforza grazie alla maturità dei partner. Insomma, le nuove valley si moltiplicano laddove si investe. Un aspetto che sfata luoghi comuni su approcci meramente dal basso. «La spinta strategica e gli investimenti delle grandi imprese sono fondamentali per l’avvio e il successo di questi ecosistemi. La loro capacità di mettere a disposizione risorse finanziarie, infrastrutture, competenze gestionali e reti di collaborazione internazionali rappresenta un fattore determinante, spesso assente negli approcci puramente bottom-up», dice Gatti. Tecnologie e territori, due concetti correlati. «Il legame tra aziende preesistenti e nuove imprese è uno degli ingranaggi chiave nella formazione dei nuovi ecosistemi imprenditoriali. Al di là del meccanismo dello spinoff, le imprese consolidate sono spesso partner strategici di nuove attività imprenditoriali: condividono competenze industriali lungo precisi assi verticali, permettono alle nuove imprese di testare nuovi prodotti e talvolta intervengono nella loro governance attraverso iniezione di capitale. Difficilmente si possono formare ecosistemi a ridosso di filiere resilienti senza la presenza di “grandi sequoie”», afferma Giulio Buciuni, professore associato di imprenditorialità e innovazione al Trinity College di Dublino e autore di “Innovatori Outsider”, in libreria per Il Mulino dal 25 ottobre. «La Silicon Valley rimane il benchmark di riferimento per tutti. È un ecosistema che oggi racchiude grandi università, imprese e un sottobosco di nuove realtà che incessantemente nascono e crescono, grazie anche alla finanza locale. Altri luoghi interessanti? Londra, Shenzen, Bangalore o ancora Galway in Irlanda, dove si fondono dipartimenti Stem e multinazionali, favorendo la nascita di start up», precisa Buciuni. L’evoluzione di questi modelli? Senza dubbio l’ibridazione. «Gli ecosistemi tradizionalmente considerati entità isolate sembrano destinati a interconnettersi tra loro, formando vere e proprie reti globali», conclude Gatti. Ancora una volta le alleanze sistemiche diventano vincenti perché scalabili.