Li chiamavano wildcatters, i primi trivellatori americani nella corsa all’oro nero, e li consideravano poco più che dei matti visionari. Dopo la prima estrazione del 1859, quando Edwin Drake riuscì a spillare petrolio dal mitico pozzo di Titusville, in Pennsylvania, arrivarono a sciami nella zona e si spostarono poi verso il Texas, la California e il Wyoming man mano che nuove scoperte venivano annunciate. “Wild cats” erano i pozzi scavati in aree ancora vergini, ma con caratteristiche geologiche considerate favorevoli, quando ancora l’esplorazione del sottosuolo era un’attività artigianale.
A quel tempo ci si basava soprattutto sui segnali superficiali, come le macchie d’olio nei torrenti o le pozzanghere che prendevano fuoco. Oggi ci troviamo nella stessa fase per l’estrazione dell’idrogeno, un vettore energetico considerato essenziale per completare la transizione ecologica verso fonti rinnovabili. L’unica differenza è che i “wildcatters” del ventunesimo secolo non sono a caccia di un liquido oleoso, ma di un gas molto infiammabile, di cui fino a pochi anni fa si era convinti che non ci fosse traccia in natura allo stato libero, pur essendo l’elemento più abbondante del pianeta, grazie anche alla sua presenza nell’acqua, dov’è legato con l’ossigeno.
La scoperta del primo giacimento
Da quando, nel 2011, è stato casualmente scoperto in Mali un ampio giacimento di idrogeno geologico, questa convinzione è stata sfatata e la possibilità di estrarlo allo stato libero come il metano riscuote un interesse crescente. L’idrogeno, infatti, è costoso da produrre in maniera sostenibile, tramite l’elettrolisi dell’acqua: la via più economica è produrlo dal metano, il che porta all’emissione di elevate quantità di CO2. Estrarlo da riserve naturali sarebbe una terza via, molto più sostenibile e più competitiva, in base ai calcoli correnti. Il prezzo dell’idrogeno geologico, detto anche idrogeno bianco, potrebbe infatti aggirarsi attorno a un euro al chilo, equivalente a quello dell’idrogeno grigio da metano, mentre l’idrogeno verde (da elettrolisi) raggiunge attualmente i sei euro, secondo un documento pubblicato su richiesta della Commissione europea da Earth2, organismo francese che riunisce industria e ricerca. Da qui la corsa ai giacimenti, che ha portato a scoprire riserve di idrogeno un po’ in tutto il mondo, dall’Africa al Nord America e all’Europa, ma soprattutto in Australia, tanto da indurre Viacheslav Zgonnik, autore dello studio di riferimento sulla sua diffusione in natura, a sostenere che l’idrogeno «ha il potenziale di sostituire tutti i combustibili fossili».
Un’origine non del tutto chiara
Sull’origine dell’idrogeno bianco si sa poco. La teoria più accreditata la fa risalire alla cosiddetta diagenesi, ovvero all’effetto di alcuni minerali ricchi di ferro (per esempio l’olivina), che in particolari condizioni comportano la scissione della molecola dell’acqua in idrogeno e ossigeno, con quest’ultimo che si lega al minerale. Un’altra teoria, non necessariamente alternativa, si basa sulla radiolisi, ovvero sulla scissione dell’acqua in idrogeno e ossigeno causata dalla radioattività naturale. In entrambi i casi, l’idrogeno rilasciato sale verso la superficie, dove si disperde in atmosfera o viene intrappolato da strati di roccia poco permeabili. La differenza, rispetto agli idrocarburi, è la velocità di formazione. Gli idrocarburi sono considerati fossili in quanto la loro formazione richiede milioni di anni, tempi non paragonabili a quelli relativi al loro sfruttamento. Al contrario, la formazione di idrogeno geologico si ipotizza sia estremamente rapida, con tempi di permanenza del gas nel sottosuolo che vanno dai 10 ai 100 anni. L’idrogeno bianco, dunque, è considerato alla stregua di una fonte pienamente rinnovabile.
Investimenti per milioni di dollari
Capire le origini dell’idrogeno geologico è fondamentale per riuscire a trovarlo. La caccia al tesoro, infatti, sta già attirando centinaia di milioni di dollari di investimenti, stima S&P Global. In testa ci sono gli esploratori australiani, come HyTerra e Gold Hydrogen, che hanno già raccolto milioni con la quotazione in Borsa. Altri sono finanziati silenziosamente dai giganti petroliferi e minerari. Michael Howard, il “barone verde” britannico, ci sta provando con la sua start up Earth Source Hydrogen. E poi c’è Hydroma, la società con sede a Montreal dell’imprenditore africano Aliou Diallo, che sta sfruttando il giacimento di idrogeno scoperto anni fa nel Mali e ne ha già trovati altri due.